Storia di un aborto, "L’evento" di Annie Ernaux
Approda in Italia, a distanza di molti anni, “L’evento”, romanzo di Annie Ernaux.
Netta, precisa - il taglio di una fotografia – è la
descrizione dei luoghi in cui la vicenda si sviluppa: il collegio in cui Annie
studia, figlia privilegiata per la quale i genitori (semplici commercianti semi-analfabeti) sognano una laurea; una Parigi rarefatta, grigia, che Annie
percorre alla ricerca disperata di un aiuto.
Come sempre, l’autrice indaga l’apparente mancanza di senso del vissuto e prova a nobilitarlo attraverso la scrittura. Ne "L’evento”, Annie decide di non tenere il bambino che aspetta, così lascia Rouen e, con un coraggio incrollabile, affronta Parigi alla ricerca di una "soluzione". Incontrerà uomini rapaci, medici pavidi, amiche che la ascolteranno.
Il ragazzo che l’ha resa gravida vive a Bordeaux e finge che il
problema non lo riguardi. Annie non chiede nulla, cerca di sbrigarsela da sola.
Sta accadendo a lei, al suo corpo, questa vicenda che non vuole e che non sente
sua. Procede a tentoni, l’aborto è un reato: deve cercare alleanze, incontrare
donne che ce l’hanno fatta. Di aborto si muore, non c’è assistenza medica,
tutt’al più si prescrive della penicillina, qualche antibiotico in caso di
complicanze.
Seguiamo Annie lungo le strade di Parigi: la vediamo attraversare la strada, specchiarsi nelle vetrine dei negozi, cercare l’indirizzo di un medico che possa aiutarla. La vediamo confidarsi, raccogliere su di sé gli sguardi dei compagni di corso, sentendosi disperatamente sola. Fingere con i suoi genitori, elaborare, aiutata da una donna che le introduce un sondino in vagina. Il metodo non è sicuro, così Annie avrà un’emorragia nella camera del collegio che la ospita, dinanzi allo sguardo inorridito della sua compagna di stanza. La descrizione dell’evento è impietosa. Nessuno sconto a se stessa, agli altri. E’ la vita che accade, brutale, che devia, che si sceglie a caro prezzo. Le parole sono graffi, feriscono. Sono prive di quella che la Duras definiva massa inutile.
"Ho cancellato l’unico senso di colpa che abbia mai provato a proposito di questo evento”, scrive la Ernaux, ” che mi sia successo e non ne abbia fatto nulla. Come un dono ricevuto e sprecato. Perché al di là di tutte le ragioni sociali e psicologiche che posso trovare per quanto ho vissuto, ce n’è una di cui sono sicura più di tutte le altre: le cose mi sono accadute perché potessi renderne conto. E forse il vero scopo della mia vita è soltanto questo: che il mio corpo, le mie sensazioni e i miei pensieri diventino qualcosa di intelligibile e di generale, la mia esistenza completamente dissolta nella vita e nella testa degli altri”.
La vita, dunque, come letteratura, che possa esistere nelle menti dei lettori per essere riconosciuta.
La vita che solo la scrittura può nobilitare.
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