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Visualizzazione dei post da febbraio, 2020

Ad Est

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Ma quanto è faticosa l'evoluzione personale? Quanto difficile è trovare il territorio della propria anima? Anni fa venivo fuori da un periodo di rottura degli argini: cercavo confusamente me stessa. Poi incontrai esseri straordinari - il sorriso e il coraggio di C., la solidità di G. - e compresi di essere  pronta . Quel mondo, così nuovo, luminoso, mi mutò profondamente. Ne parlo di rado. So che la consapevolezza che scaturì da quel lungo e fruttuoso periodo della mia vita è anch’essa in continua evoluzione. Oggi mi sono finalmente resa conto di cosa voglia dire ‘territorio’. So di aver compiuto diversi giri per comprenderlo, di essermi lasciata alle spalle molte certezze e tante persone. Credo di aver capito cosa cercassi, quale fosse l' humus adatto alla mia anima. Un luogo sentimentale, ma anche fisico. Un posto dove recuperare l’incanto, per viverlo profondamente, orientato verso Est, che inondi di luce il mio sguardo. Mi ci muovo ancora con cautela, nel mio av

Chatwin e l'irrequietezza

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Lessi, una volta, che si viaggia per sfuggire al “primo mondo”, al rapporto col padre e con la madre. Più è stato complesso, questo rapporto, e castrante, più si va a finire nella coazione a ripetere del viaggio. Una coazione certamente liberatoria. Non so se si viaggi davvero per fuggire, o per reazione a quello che Chatwin chiamava “l'horreur du domicile", riprendendo le parole di Baudelaire. Di sicuro, la maggior parte delle persone è poi chiamata, dallo stesso istinto che la porta ad andare, a fare ritorno a casa, a ciò che necessariamente le somiglia, che la annoia e che, talvolta, smette anche di somigliarle. In “Anatomia dell’irrequietezza”, che ho riletto di recente grazie al gruppo di "Leggere mette le ali", riscoprendolo con piacere, Chatwin analizza il fenomeno del nomadismo come necessario alla felicità dell’individuo, che stanziale non è. Nello “stare" c’è la ragione del malessere, uno “stare” non solo geografico quanto, soprattutt

"Fuga a perdere", due domande all'autrice, Tiziana Tafani

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Erano gli anni novanta e si stava, giovani ed ingenui, nella Roma di Craxi-Forlani-Andreotti. Io, anima vagula blandula, mi aggiravo per i corridoi della LUISS e lei era con me, tra i banchi: già così donna, dirompente e diretta. "Lei" è Tiziana Tafani, mia compagna di corso all' Università, nata a Viterbo ma cresciuta ad Orvieto, scrittrice per vocazione e per scelta. Nel tempo non ci siamo perse, complici i social e, soprattutto, una certa affinità. Ci siamo riviste alle varie rimpatriate universitarie e raccontate un po' di vita. Ora lei ha dato alle stampe il suo terzo lavoro, dopo "And we can be heroes" (L'Erudita 2016) e "Freud e Orvieto" (Intermedia 2017). Le ho rivolto qualche domanda, incuriosita dalla sua vocazione letteraria che si fa sempre più sicura ed intensa. Io -  "Tiziana, ti ho conosciuto sui banchi dell'università. Già allora amavi leggere, scrivere. Da dove nasce, secondo te, l'urgenza della scr