Chatwin e l'irrequietezza





Lessi, una volta, che si viaggia per sfuggire al “primo mondo”, al rapporto col padre e con la madre.
Più è stato complesso, questo rapporto, e castrante, più si va a finire nella coazione a ripetere del viaggio. Una coazione certamente liberatoria.
Non so se si viaggi davvero per fuggire, o per reazione a quello che Chatwin chiamava “l'horreur du domicile", riprendendo le parole di Baudelaire. Di sicuro, la maggior parte delle persone è poi chiamata, dallo stesso istinto che la porta ad andare, a fare ritorno a casa, a ciò che necessariamente le somiglia, che la annoia e che, talvolta, smette anche di somigliarle.
In “Anatomia dell’irrequietezza”, che ho riletto di recente grazie al gruppo di "Leggere mette le ali", riscoprendolo con piacere, Chatwin analizza il fenomeno del nomadismo come necessario alla felicità dell’individuo, che stanziale non è. Nello “stare" c’è la ragione del malessere, uno “stare” non solo geografico quanto, soprattutto, emotivo, legato alle regole sociali che vogliono l’individuo sempre uguale a se stesso.

In quest’opera postuma, fortemente voluta dalla sua editor, Susannah Clapp, il nostro autore racconta di viaggi, di nomadismo e anche, appunto, di “case”.

Chatwin fu un collezionista compulsivo che molto presto si annoiava degli oggetti che lo circondavano e che iniziavano ad opprimerlo. Durante gli ultimi anni della sua vita – ormai malato – acquistava pezzi per i quali non aveva la disponibilità di denaro e le Case d’asta, d’accordo coi parenti, stavano al gioco, recuperando poi l’opera selezionata col beneplacito della moglie.
Erano queste le sue contraddizioni, le stesse che lo portavano ad andare e tornare incessantemente, ad amare uomini e donne (era bellissimo), restando con la moglie, che lo venerava come un dio, proteggendolo da se stesso. Tenne segreta la sua malattia fino alla fine, perché aveva scelto di non confessare la sua bisessualità, proprio lui, refrattario a ogni conformismo. Si avvicinò al trascendente negli ultimi giorni della sua vita, come per essere perdonato, sperando sempre in un miracolo che lo strappasse alla malattia. Consapevole della dispersione a cui le sue scelte potevano condurlo, cercava sempre porti sicuri a cui ritornare.


Chatwin decise di vivere l'inquietudine difendendosene come poté, senza forse neppure cercare di comprenderne le cause.
La ragione di questa compulsione a errare era nel suo 'primo mondo'? Era nella sua natura di vivente o, piuttosto, nella reazione alla civiltà nella quale si era formato, nonostante tutto?
Era scritto nei suoi geni, come in quello di tanti altri esseri umani? Qualcosa che aveva a che fare con i neuroni, col sangue, col suo destino?

Il libro non svela – né potrebbe farlo, anche volendo - quale fosse la radice dell’irrequietezza di Chatwin (che è quella di molti di noi), ma ci offre generosamente gli strumenti per entrare nella mente di un autore magnifico, compiendo con lui un viaggio che ha il profumo dell'esotico e del diverso, e che assomiglia molto a quella parte di noi che abbiamo smesso di assecondare.


"Non ho nessuna ragione economica per muovermi, e avrei tutte le ragioni per star fermo. I miei moventi, dunque sono materialmente irrazionali ... ma poi sono tirato indietro  da un desiderio di casa. Ho una coazione a vagare e una coazione a tornare - un istinto di rimpatrio, come gli uccelli migratori".



 


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