In memoria di Don Luigi Caturano




La primavera procede, incurante delle nostre preoccupazioni, nei vicoli e nelle strade.
È in questi giorni di quarantena, illuminati da un sole sfottente, che mi arriva la notizia della morte di Don Luigi. Se n'è andato nella calma e nel silenzio che hanno caratterizzato i suoi ultimi anni, senza clamore. Invio a mia sorella un messaggio per comunicarle la brutta notizia, sono le undici di sera ma lei, nonostante sia in prima linea come molti medici, è ancora sveglia. "Non lo sapevo. Quanti ricordi", mi risponde.
È proprio vero che la memoria è un ingranaggio subdolo: miliardi di neuroni portati avanti e indietro da qualcosa che non riusciamo a controllare. Tutto sembra passare e nulla passa.
Ecco che lo vedo senza abito talare alla guida della sua auto scassata. Frena energicamente, parcheggia, scende dal veicolo con la sua andatura elegante: è un uomo alto e magro, sembra un attore, è deciso, cordiale, ci vuole incontrare per stabilire i termini della raccolta di denaro con cui verrà finanziata una struttura ricreativa per i ragazzi della "Pietà", il quartiere che cresce nella parte bassa della città, con le sue case popolari, il campo di calcio, la parrocchia.
Sono anni che trascorro le estati nella colonia estiva che Don Luigi  organizza ogni volta in una località balneare diversa. Chiede ed ottiene permessi per adibire temporaneamente gli edifici scolastici a fini ricreativi. Le aule diventano grandi camerate e ognuno di noi ha un compito, che viene assegnato di giorno in giorno: si è istruttori di ginnastica, insegnanti di disegno, addetti alle pulizie, ai bagni comuni, alla pulitura degli spazi esterni, alla cucina, al refettorio, a seconda dei turni. Delle anziane collaboratrici esterne ho un ricordo approssimativo e confuso, come se non fosse stato dato loro di entrare davvero nell'immaginario del nostro vivere gli uni accanto agli altri, adolescenti in piena esplosione ormonale, costretti dolcemente all'ordine. Ragazzi e ragazze devoti per dovere e solo per la durata della Messa giornaliera. Le celebrazioni più significative si tenevano davanti al mare, dopo però toccava ripulire la spiaggia, grossi sacchi alla mano: era quarant'anni fa, ma già c'era immondizia dappertutto. Nascevano amori e pure disamori, nella colonia estiva. La preghiera del mattino era uno strazio, affamati ed insonnoliti come eravamo, desiderosi di correre al mare, ai nostri tuffi contingentati tra le onde.
Imparavamo la disciplina e la distanza, eppure ci sentivamo liberi, lontani dalle nostre famiglie. "Ciao, mamma, io sto bene", il gettone cadeva rapido e ci liberava dal turno di telefonate, tutti in fila ordinata davanti alle cabine della S.I.P., e poi di nuovo liberi di camminare per raggiungere un bar e goderci un gelato, grazie agli spiccioli che ci eravamo portati dietro.
Ho quest'immagine di noi sul lungomare di Terracina, i capelli spettinati e la pelle odorosa di salsedine, diretti verso una sagra cittadina, le luci delle bancarelle e dell'ottovolante e quell'odore di salsiccia e muss 'e puorc che non mi è mai piaciuto.
Don Luigi ci seguiva poco distante, il sorriso largo e le braccia conserte, rigido e flessibile come una canna di bambù.
In colonia, un'estate, venne a trovarmi il ragazzo di cui mi ero invaghita e del quale non volevo sapere più nulla. Sulla spiaggia me lo ritrovai davanti vestito di tutto punto, jeans, giubbino e casco della moto sotto al braccio. "E che ci fai tu qui?" gli dissi "guarda che chiamo il Don". Appena sentì quel nome si dileguò.
Don Luigi aveva assistito alla scena di lontano, senza mai intervenire. Ma, dopo cena, in Istituto, lo  trovai ad attendermi, le maniche della camicia arrotolate sugli avambracci. 
"Dimmi, provi almeno un po' di entusiasmo per lui? Questo solo devi chiederti" mi disse. 
Era fatto così, cercava soprattutto di capire.
Il denaro gli interessava solo come strumento per fare del bene ai giovani della "Pietà", abituati alla strada, così poco avvezzi alle regole e all'ordine. Aveva un'utilitaria sgangherata ma aveva preso anche la patente D per guidare lo scuolabus, finché non comprò un pulmino per portare al mare o in montagna i "suoi" ragazzi. Che non potevano permettersi né il mare né la montagna né niente.
Portava occhiali da sole dalla montatura nera che gli mangiavano la faccia, come un vero prete di trincea, raramente in abito talare, abituato a combattere contro la burocrazia e a non darsi mai per vinto.
In queste giornate vuote, fatte di silenzi ed isolamento, penso alla sua idea di socialità: stare assieme per crescere, per migliorare noi stessi. 
Era importante imparare la gioia di esistere al di là dei problemi, lui ne era testimonianza vivente.
Non saranno celebrati i suoi funerali, la legge ha disposto la quarantena anche alla morte.
Non assisteremo alla sua tumulazione, ma sono certa che non gli sarebbe importato, lontano com'era dagli inutili clamori del mondo. Non vedrò la bara chiudersi per sempre sul suo viso immobile, mi è risparmiata la pena. 
Dovrò abituarmi a non saperlo più da nessuna parte, un cuore che, nonostante tutto, batteva ancora in qualche posto della città.
Amava la vita in maniera risoluta ma quando, più di dieci anni fa, lo incontrai per caso e gli chiesi come stesse, mi rispose solo: "Attendo serenamente la morte". Feci gli scongiuri, mi schernii, ma lui inforcò gli immancabili occhiali da sole e non rispose. Sentiva il suo corpo mollare la presa, si preparava a ciò che sempre lo aveva accompagnato, l'idea dell'altrove su cui aveva basato tutto il suo cammino di uomo.
Non l'ho rivisto mai più, da allora, ma lo avrei riconosciuto tra mille persone, nonostante lui appartenesse a un passato a cui non tornavo spesso, come fanno tutti, per troppa ansia di futuro.
Ora è il momento di provare a mettere assieme i pezzi sperando che combacino, in questa nuova età che mi vede accettare gli addii per quello che sono, inevitabili. Non so quale fede abbia guidato i miei passi nella vita. Ma non è questo ciò che conta, alla fine. 
Da uomini come Don Luigi ho appreso il sentimento del dono, dello stare a servizio. Non ne sono stata sempre capace, tutt'altro. Ho imparato, soprattutto, il senso del sacro che permea ogni cosa e che non si può spiegare a chi non lo ha mai provato almeno una volta nella vita. La sacralità del presente e quella del passato, la stessa che mi riporta su quel lungomare: una ragazza troppo magra, inadeguata, ma con tutta la vita davanti.
In questi giorni difficili, il ricordo mi aiuta a sperare in una svolta salvifica che possa restituirci al mondo trasformati.
Per questo non potrò mai ringraziarti abbastanza, Don.




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