"Anatomia dell'irrequietezza" secondo Leggere mette le ali





Leggere e parlare di Bruce Chatwin al tempo della "quarantena", in questi giorni così confusi di notizie ed ansia collettiva, ha in sé qualcosa di catartico.
Chatwin fu un viaggiatore compulsivo, sempre in bilico tra desiderio di fuggire e nostalgia del ritorno, capace di mettere in dubbio anche la propria identità. Un avventuriero borghese che avrebbe sfidato qualsisi veto pur di rispondere al suo desiderio di scoperta. 

"Anatomia dell'irrequietezza" è il testo proposto da  Patrizia Perifano per il nostro gruppo di lettori appassionati. Al termine della lettura abbiamo, come al solito, condiviso le emozioni e le riflessioni che il testo ha suscitato in noi.

Patrizia Perifano: "Chatwin scrive di cose fantastiche, di persone e cose che aprono mondi parallelli. Purtroppo  non c'è modo di verificare tutti i suoi continui rimandi... Il racconto su Max Tod è  straniante.Tod, in tedesco, significa morte".
Maria Gabriella Moscati: "Volle essere sepolto in Grecia, nel Mani, sapete? Appena chiuso il libro, la prima cosa che ho pensato è che il più bel racconto che Chatwin ci ha lasciato è il modo in cui ha vissuto. Capace di intrigarci e appassionarci alle sue vicende, alle sue elaborazioni mentali, ai suoi punti di vista. Anche lui, come altri autori che abbiamo affrontato, è  un bell' esempio di doppio... Però, questo "doppio", è  dominato con forza e decisione dal pensiero che razionalizza e unifica i diversi suoi aspetti. Aspetti che rivela in modo trasparente nei suoi scritti. Collezionista e amante degli oggetti, porta all'estremo, nella scrittura, la sua passione. Potrebbe essere capace di manipolare e uccidere per essi (vedi "Il patrimonio di Maximilian Tod", cui faceva cenno Patrizia)".
Savina Molino: "È un ottimo narratore, mi piace molto il suo modo di scrivere".
Maria Gabriella: "... Ma elabora anche una strategia per sottrarsi al dominio di questa passione ingombrante. La fuga in luoghi lontani e selvaggi. Eppure, anche lì, non se ne libera del tutto... Lo segue il fedele zaino fatto costruire su misura da un sellaio di Londra, la scorta di Moleskine. Insomma era un radical chic in viaggio! Sa però razionalizzare questa fuga con un'interessante e originale teoria  sul nomadismo. A me pare che scriva un po' per se stesso e un po'  per il suo pubblico delle aste, che era colto, estetizzante, conservatore e, per lo più, femminile. La sua è una scrittura guizzante e anche lenta. Ma di che segno zodiacale era?".
Patrizia: "Toro...Strano, no? Nato a maggio".
Maria Gabriella: "Beh non tanto, il toro è attaccatissimo alla terra e quindi alle cose...Ma poi vai a capire l' ascendente!".
Chiara Vesce: "Anche se non è il mio genere preferito, Anatomia dell'irrequietezza mi piace, si legge assai facilmente, anche perché i capitoli sono narrazioni a sé. Mi piacciono le descrizioni, gli elenchi e, di Chatwin, apprezzo la mutevolezza apparente, perché, al di sotto di tutte le irrequietudini, una cosa costante possiede: la perseveranza dell'instabilità. Mi piace la sua curiosità che si trasforma in una forma di cultura variopinta, per nulla accademica e quanto mai affascinante. Noto però una certa anaffettività, forse una forma di difesa? Non so. Il ritorno offre una pienezza di senso che l’andata da sola non ha. Il ritorno è la risposta che troviamo alla nostra irrequietezza: questo è il pensiero di Chatwin che sento mio e che rappresenta la mia ispirazione. Per il resto, faccio fatica a immaginare quest' uomo: era un vero bugiardo, e a me i bugiardi fanno allergia (a questo proposito, cito Peter Levi, per cui Chatwin rappresentò il compagno di viaggio ideale: "Era una persona divertentissima e come bugiardo stracciava perfino Ulisse ma, nel contempo, era estremamente serio"). Lo voglio immaginare che cercasse il senso delle cose per giungere a quello della vita, per coglierne il cuore pulsante. Più che un viaggiatore, era un ricercatore irrequieto e, per questo, fallimentare. Per trovare bisogna aver metodo e tanto tempo, molti anni. Lui, Bruce, era impaziente, impulsivo, e questo me lo rende simpatico, ma l'impulsività non lo aiutava, come non lo aiutò la vita, o meglio la morte, che se lo prese presto. Magari, se fosse vissuto più a lungo, noi avremmo goduto di un Maestro, chissà. Aveva buon occhio per le cose e, oltre le cose, per gli spazi; era un collezionista di vedute su tela e dal vero. Viaggiava come se viaggiasse nei quadri, alla ricerca del punto G, quello che fa scattare la comprensione olistica e nello stesso tempo l'abbandono della mente. Non raggiunse questo punto e,  per questa impotenza e per la rabbia che ne derivava, spesso appariva meschino nel raccontare di persone, specie se erano ammirate come Axel Munthe o Malaparte. Apprezzo comunque la sua compulsione al cambiamento, e adoro la sua ricerca di semplificazione. Sì, penso che sarebbe diventato un grande Maestro, se solo, invece di morire in Provenza, ci avesse potuto vivere tanti anni, seduto a guardare il cielo, o passeggiando nel verde, avendo come mezzo di trasporto unicamente la sua bicicletta".
Maria Gabriella: "Più che un bugiardo era un immaginifico, convertiva la realtà a suo uso e consumo. In questo è stato potente. È uno che ha percorso una sua via di salvezza individuale e l'ha comunicata come sua senza nessuna  spocchia di redenzione dell'Altro, forse con strafottenza ma senza voler essere né un esempio, né  un Maestro. Riflettendo ancora, voglio dire che lo ammiro per l'architettura che ha saputo esplicitare nella concretezza del vissuto e nell' elaborazione teorica della sua dualità . Credo che poche persone siano riuscite a  tenere in pugno, come lui, la propria scissione dell' io senza scivolare nella psicosi. Sì, in fin dei conti era un magnifico bordeline...".
Patrizia: "Chatwin era forse la reincarnazione di uno spirito indù, o di Manitù, o di qualche divinità boscimana, costretta suo malgrado a vivere in un mondo che non gli apparteneva...O forse era solo un po' vuoto di tutti quegli insegnamenti, valori, pregiudizi del mondo Occidentale. Tanto eclettismo è, a mio avviso, segnale di ancoraggi inefficaci".
Chiara: "Sono d'accordo, per questo dicevo: più cercatore che viaggiatore".
Maria Gabriella: "Ogni 'viaggiatore' è  un cercatore, fin dai bei tempi di Ulisse...perché, come diceva Dante, fatti non foste per viver come bruti, ma per perseguir virtute e conoscenza".
Chiara: "Mica tutti! Ci sono tanti che viaggiano e tornano tale e quale a come sono partiti! Il viaggio deve portare un cambiamento del Sè, penso. Chatwin tornava che aveva visto, considerato, scritto meravigliosamente...".
Patrizia: "Sì, sono tanti quelli che viaggiano e non cambiano di una virgola. Strana cosa...".
Chiara: "Anche i suoi riferimenti a Boas nel testo letto, ci fanno intendere che la sua ricerca antropologica fosse approfondita, anche se poi se ne discosta con una sua interpretazione personale".
Patrizia: "Viaggiare trasforma, al di là di quello che vedi".
Chiara: "Mi pare che abbiamo già risposto: non è il viaggio che fa l'uomo, ma è come l'essere umano viaggia nella propria vita. Non è lo spostarsi che cambia, nel senso di cambiamento dal punto di vista umano, intellettuale, spirituale. È come si sta al mondo che consente, a mio parere, quella evoluzione a cui si riferisce Dante. C'è gente che legge mille libri e resta mediocre, c'è chi legge sempre lo stesso ed evolve".
Maria Gabriella: "Il quesito (che non è mio, ma di John Urry, sociologo del turismo e della mobilità) è  diverso. Urry si chiede quanto, del nostro immaginario, ossia quanto di quello che abbiamo visto  nei media, letto o sognato, influenzi la percezione e la conoscenza di un luogo. Cioè, quanto di quello che noi siamo ci influenzi nel feed back di conoscenza di un posto. Se facciamo di un luogo lettura selettiva in base alle conoscenze pregresse e al nostro immaginario, cercando conferme in ciò che sappiamo o immaginiamo, o se siamo più aperti e liberi".
Chiara: "È proprio quello che intendo per evoluzione: superare la abitudini mentali e i meccanismi che ci dominano. Il viaggiare aiuta moltissimo, in questo, mette in crisi e apre nuovi scenari. Lessi, in tal senso, un libro di Messner che mi entrò nell'anima e mi aprì il petto".
Io: "Era un collezionista compulsivo che presto si annoiava degli oggetti di cui si circondava. Durante gli ultimi anni della sua vita - ormai malato - acquistava pezzi che non poteva permettersi, che poi la famiglia restituiva agli antiquari ed alla Case d'Asta. Era contraddittorio: restava con sua moglie, che lo venerava come un dio, ma amava indifferentemente uomini e donne. Si avvicinò al trascendente negli ultimi giorni della sua vita, come per essere perdonato, sperando sempre in un miracolo che lo strappasse alla morte".
Angelo Nenna: "A casa di Patty stiamo vivendo un bel momento di riflessione su Chatwin e sulla sua originale ricerca di un equilibrio data solo dallo spostamento, dal movimento anarchico verso un altrove e, poi, dalla strana voglia di ritorno al nido...Paradossale discutere di viaggi, migranti e viaggiatori compulsivi in tempi di 'zone rosse', quarantena e immobilismo forzato, tra colpi di tosse ed echi del contagio arrivato anche dalle nostre parti...Suggerisco un azzardato punto di unione tra Chatwin ed altri viaggiatori compulsivi come Kerouac, Bowles, Yourcenar, i vagabondaggi dei poeti beat e quelli di Bukowski".
Antonella Rosa: "Io sono una rondine. Questa frase, scritta da Chatwin a soli sei anni, lo rappresenta in pieno. L'irrequietezza di Chatwin, per me, è questa, unita ad una curiosità forse patologica. Era un esteta con un occhio raffinatissimo, amante del bello e della cultura francese. Aveva, dalla sua, una teatralità e una fantasia fuori dal comune. La sua prosa racchiude una capacità innata di narrare fatti che, pur se reali, non mancano di essere contaminati dalla sua fervida immaginazione. Usa una lingua tagliente, schiettamente polemica, ma sapeva di poterlo fare. Era un borghese che amava viaggiare, ma che non era completamente libero da schemi. Un nomade soprattutto dal punto di vista sentimentale.  Insaziabile scrittore in viaggio, un animo irrisolto, ma estremamente affascinante".
Maria Gabriella: "Questo per dire del viaggiatore borghese, che viaggiava con uno zaino fatto su suo progetto da un esclusivo sellaio londinese. E che, quando finiva le " moleskine", se le faceva spedire o portare dalla mogli".
Angelo: "Non so perché, ma esteticamente mi ricorda Steve McQueen".
Nunzio Castaldi: "Siamo creature nomadi, ci suggerisce Chatwin. Un nomadismo su sentieri di terra e di vegetazione, o di mare e stive di imbarcazioni. I suoi primi ricordi, dice, sono ricordi di mare. L'infelicità, l'irrequietezza è l'essere costretti a stare in un posto, sia esso una camera, sia esso una città (e la civiltà nasce con la città). L'irrequietezza può sfociare nella violenza, o nel bisogno di un errare falso, costruito, nocivo: fare uso di droghe, per evadere dalla routine della sedentarietà, dice Chatwin, è tipicamente della nostra civiltà. Lui, che aveva già nel cognome il destino del viaggiatore ('Chatwin' deriverebbe da 'sentiero tortuoso', in anglosassone), prende le distanze dai finti viaggiatori (più turisti del viaggio, in verità, come Stevenson) o dall'etica stanziale di un Lorenz, in cui ravvisa pericolose derive antiumane, in due recensioni che in realtà sono stroncature decise ed impietose. Ma l'anima di Chatwin è comunque dimidiata: l'adrenalina e la curiosità del muoversi si alterna alla necessità di trovare, o tornare, in porti sicuri: casa (dice) è dove sono i tuoi amici e i posti più amati sono quelli dove lavori bene. Questa doppia anima vive nel suo essere scrittore: e già da bimbo, i suoi 'amuleti' erano un cammello di legno, una conchiglia, ma anche un libro. Forse, quello che conta davvero, non è il viaggio in sé, ma l'incontro con gli uomini alla meta, o durante il percorso. Chi non viaggia non conosce il valore degli esseri umani, afferma Bruce, prendendo in prestito una massima di Ibn Battuta, celebre girovago arabo. E forse cercare il valore degli esseri umani è il vero, unico scopo del viaggio".
Maria Gabriella: "Permettimi, Nunzio, di precisare una cosa: certo, cercare il valore degli esseri umani è il probabile scopo del viaggio, ma nella loro diversità. Il cogliere la diversità  - e il valore che essa contiene -  è  l'essenza del viaggio, a mio vedere".





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