I vagabondi, di Olga Tokarczuk



Olga Tokarczuk è uno di quegli autori che ti entrano nella pelle.
Confesso che non la conoscevo se non come vincitrice di un Nobel, almeno finché non mi sono imbattuta ne "I vagabondi", titolo italiano dato al quasi intraducibile "Bieguni":  raccolta di visioni, sensazioni, illuminazioni sul senso del viaggio.
O, meglio, dello spostamento/spaesamento. 
"I racconti hanno una specie di inerzia propria, che non si può mai controllare fino in fondo. Richiedono gente come me, insicura, indecisa, facile da sviare, ingenua", ci dice la Tokarczuk.
La distanza che il viaggio crea, rispetto al quotidiano, è capace di darci qualche risposta sul nostro essere qui o, quanto meno, aiuta a porci delle domande.
"Forse esiste una specie di riflesso del grande e del piccolo, il corpo dell'uomo collega in sé il tutto con il tutto?", si chiede la Tokarczuk.
Lo spostamento è vita, rompe lo schema, la ripetizione, la contabilità ordinata dei giorni.
"Più pause nello spazio, e quindi più luoghi sperimentiamo, più il tempo scorre in modo soggettivo".
Lo spazio di cui l'autrice ci racconta è soprattutto un luogo mentale che nasce dall'osservazione, dalla riscrittura dei codici. Il luogo è -  innanzitutto - il corpo, e così la Tokarczuk ci racconta del cuore di Chopin, di dissezioni su tavoli autoptici, di reti di vene e muscoli che il bisturi incide. Philip Verheyen, a cui avevano amputato una gamba, lavorò all'atlante del corpo umano come se si trattasse del mondo delle terre emerse. L'arto mancante gli procurava dolore quasi quell'assenza fosse comunque  parte di un tutto collegato - per sempre -  in maniera invisibile.
E così, allo stesso modo, il viaggiatore cerca nei luoghi l'assoluto di cui fa parte, l'interconnessione tra lui e l'universo da cui la nascita lo ha separato, immettendolo nel mondo della materia, dello spazio-tempo.
"I vagabondi" è un atlante che ha per oggetto lo sguardo del pellegrino. Di colui che parte, lasciando i luoghi consueti, i rapporti sperimentati, i sentimenti che il tempo ha ingrigito e vuotato di senso. È un atlante che si pone domande e indaga il potere del corpo e i suoi limiti, il modo in cui chi comanda lo fa imprigionando i nostri corpi, senza poter impedire alla nostra anima di manifestarsi, di andare oltre le gabbie della prigione.
E dunque case, isole, aeroporti, sale d'anatomia, relazioni, navi, nulla può impedire al pellegrino di essere tale, di continuare a porsi l'eterna domanda sul senso della vita. Forse, si chiede l'autrice, il dolore che Verheyen prova, e  che viene da ciò che non c'è più, dal suo arto amputato, è Dio?
Ed è Dio, allo stesso tempo, il richiamo della carne che Anna, la sorella dello scienziato Ruysch, avverte quando vede nel porto, nella braccia tatuate di un marinaio, la vita che si è negata? "Quel grande corpo voluminoso le fa una grande impressione. Sente le gambe lente e pesanti mentre il corpo di apre dal basso, è questo che sente - si apre a quelle braccia".
Scrivere è un modo per "esplorare", e questa raccolta di racconti sa dircelo con potenza: disegnare l'anatomia della nostra vita, la fluidità delle nostre emozioni, trattenerle e conservarle - "ci plastineremo immergendoci nella formalina di pagine e frasi" - è una maniera per comprendere forse il luogo per la prima volta.

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