Luz





“Non capii subito, ma poi le immagini tornarono, dopo qualche tempo. Papà recise i tentacoli di netto con un coltello, a mani nude non riusciva. Vidi qualcosa di viscido scivolare da dentro il mio corpo, rimase a lungo il segno delle ventose sulle cosce”.

“E perché non diceste nulla?”.

“Non lo so. Ero caduta in acqua e non sapevo nuotare, papà si era distratto. Sapeva che se ne sarebbe andato, forse è per questo che decise di non dirvi nulla".

 

Estirpo le erbacce dalle connessure. Massi cubici tagliati con cura, messi uno sopra l’altro, che si restringono in cima, pietre raccolte nelle campagne, unite a formare un corpo. Mia madre, mio padre. Blocchi divelti,  scalfiti dalle intemperie: se li tocco sono ancora caldi, eppure il sole sta per tramontare. 


Siamo in spiaggia, mio fratello gioca più in là, raccoglie sassi che getta nell’acqua, poi si volta a guardarmi. E’ più piccolo di me, chiede con slancio gli abbracci e li ottiene, io invece ho paura, ogni cosa mi lacera. Abbiamo otto e sei anni, non so come riempire gli spazi vuoti che i nostri genitori lasciano tra una parola e l’altra, tra un gesto e un altro. Di notte la casa sprofonda nel silenzio, mi rivolto nel letto, sento la persiana che sbatte. Al mattino è mamma che mi sveglia e mi dice “Va’ a lavarti”. Sento rumore di piatti, tintinnio di oggetti. E’ l’unico momento della giornata in cui l’angoscia si placa perché sono certa che qualcuno si stia occupando di me: mia madre  si muove rapida nei pochi metri che ci separano. Siamo ancora sole, io e lei, non c’è nient’altro che questo, frammenti di voci nel giorno che rischiara, battiti, pudore. Vorrei abbracciarla ma non oso. Imparo, senza saperlo, l’arte sottile dell’elusione: mi faccio da parte, divento invisibile. Lascio il campo a mio fratello, piccolo e vulnerabile, così umorale da quando nostro padre se n’è andato.


Si era sposato a diciotto anni, appena dopo il diploma. Voleva una famiglia. Aveva bisogno di una famiglia, così raccontava ai parenti quando credeva che io non lo ascoltassi, nelle pause dei lunghi pranzi, davanti a un caffè. Però io sapevo, anche se ero molto piccola, che neppure lontanamente un bisogno somiglia all’amore. Mia madre viveva in attesa di lui, della sua sufficienza. Le loro parole stavano tutte nel pugno di una mano, nel poco spazio possibile: il resto sfilava tra le dita, andava perduto. Ho trovato delle lettere. Le chiedeva scusa, le scriveva che non era una colpa, essere così come lui era, che bisognava andare avanti e volersi bene. Poi però spariva per lunghi periodi. C’erano altre donne, lunghe assenze, vuoto. Lo immaginavo baciare le sue fidanzate, affondare in una carne che non conoscevo.  Gli piaceva portarmi con sé quando andava a pescare. Cambiava aspetto: calzoni corti, maglietta. Lo guardavo, temendo che l’incanto svanisse da un momento all’altro. Smetteva di guardare l’orologio, il suo vitalismo ossessivo si placava. Mi svegliava all’alba, caligine sospesa sull’acciottolato, silenzio, il rumore dei nostri passi. La luce azzurrognola si spalmava sulle pareti delle case, teneva nella sua la mia mano. Ricordo bene la felicità di quei momenti, scorgevo il profilo della barca sulla superficie del mare, il riflesso del mio viso. Ma quella mattina mi sporsi troppo e caddi in acqua, trascinata dal peso della mia testa, nel nero fondo, mentre qualcosa mi afferrava per le gambe.


Ogni giorno è uguale all'altro: mi sveglio alle sette, preparo il caffè, spalanco le finestre. Dalla cucina scorgo la striscia argentea dell’Adriatico che al mattino si confonde col cielo. Lungo la strada mi fermo al solito distributore, se piove o fa freddo prendo un altro caffè prima di entrare in banca. Quando me ne andrò in pensione venderò l'appartamento per starmene più vicino al mare, a Villanova. Sono rimasta a vivere nella casa della mia infanzia e ho sbagliato. Non ho mai amato il mio lavoro, ma mi è sempre mancato il coraggio di cambiare strada. Difficile rifiutare il posto fisso, dopo che mio padre se n’era andato: in casa serviva un altro stipendio. All’inizio timbravo il cartellino, sempre sorridente. Però sanguinavo: un ginecologo diceva che era a causa del mio ovaio policistico, un altro sosteneva che si trattava di un fatto ormonale, la temperatura basale parlava chiaro. Macchiavo i sedili delle auto, le poltrone in ufficio, portavo con me biancheria intima di ricambio. Mi vergognavo, mi sentivo in colpa: poi mi consigliarono di togliere l’utero. Non avrei potuto più avere figli, mia madre non seppe consolarmi. Non aveva niente da dire.


Era rigida, soprattutto con me.  L’aiutavo a fare le faccende di casa, svuotavo il secchio dell’acqua, toglievo la polvere, preparavo la colazione a mio fratello, a cui era concesso di dormire più a lungo, perché era piccolo e si ammalava spesso. Poi la signora Maria accendeva la TV e si sintonizzava sulla Messa domenicale. Dal balcone la vedevo spazzare a terra, stendere il bucato. Uscivo e la salutavo, mi faceva cenno di andare da lei, c’era sempre qualcosa di buono da mangiare, sin dal mattino: “Vieni qua” sorrideva. Voce squillante, seno grande. Mi voleva bene. Su un divano di pelle bianca teneva tre, quattro bambole di porcellana che non toccavo mai perché mi impressionavano. Le foto dei nipoti alle pareti, il primo piano di sua sorella, capelli cotonati, morta in Svizzera dove si era trasferita. Lo scorcio della cucina col fracassè dentro cui aveva messo a scaldare qualcosa per me, una torta alle noci, del pane fatto in casa. Da lei ho assaggiato i primi caffè della mia vita, mentre mi raccontava dei fratelli, di com’era prima, quando di sera si cenava tutti assieme nel vicolo. Non si era mai sposata, per anni aveva lavorato in un villaggio turistico come cuoca. Ore a cucinare, dalla mattina alla sera, cinque mesi all’anno. “E adesso nemmeno mi basta la pensione. Ma non ci lamentavamo, mo' è peggio. Tua madre va al lavoro e poi si chiude in casa, non passa manco più a salutarmi, sta sempre sola, che vita è questa?”. 

Mamma piangeva sul letto e sul tavolo la nostra cena si raffreddava. Papà provava a spiegare, poi si arrabbiava,  indossava il cappotto e se ne andava sbattendo la porta. Non l’ho mai giudicato. Era bello, le donne lo corteggiavano: gli occhi chiari, i capelli scuri, le gambe lunghe. Chinava il busto verso lo specchio per annodarsi la cravatta, la consolle era bassa, non riusciva a vedersi intero. Ce l'ho ancora in camera da letto, quella consolle: mio fratello mi ha lasciato tutto.


*


“Meglio stare attenti” ha ammesso. Due figli, una moglie a cui deve molto, quadrata, responsabile. L’ultima volta siamo andati da lui. Ripiani immacolati, candore, silenzio. L’abbiamo fatto lì, in cucina, senza parlare. Dopo mi sono sentita sporca, sapevo che avevamo sconfinato. “Scusami” ha mormorato, gli occhi bassi, mentre si abbottonava i pantaloni. La breve frenesia dell’orgasmo. Qualcosa di viscido mi colava lungo le gambe, ho preso dello scottex per asciugarmi. Mi sono tornate alla mente certe immagini. Quella volta che ero caduta dalla barca. E poi mio padre in auto con un’altra donna, mentre la baciava, la bocca spalancata sulla sua. Volevo andarmene, non mi ha trattenuta. Davanti alla porta mi ha sorriso, sembrava sollevato. “Ti chiamo più tardi” ha detto. Più tardi. E’ stato così sin dall’inizio, la pietra d’inciampo era quella. Lì solo potevamo arrivare, al momento successivo, senza orizzonti. Gli ho detto: “Addio” a voce bassa, ma non sono certa che mi abbia sentito.


“Te ne ho già parlato, te lo cedo per una cifra irrisoria, non mi interessa e non so cosa farmene”. Ha una bella voce, mio fratello, un vago accento milanese. A guardarla da lontano, la costruzione è un ammasso di pietre, non si vede nemmeno il mare, ma c’è un ulivo planetario a cento metri e pochi ettari di terreno, il che è un bene perché non avrei tempo per curarlo.

“Scendo giù e procediamo”. Lui è così, non perde tempo, è un uomo portato ad agire. Ha anche una ditta da consigliarmi, il titolare è un suo amico dei tempi del liceo. Poi mi dice che potrei mettere a reddito la proprietà e che si è informato, si può anche edificare un corpo aggiunto della stessa grandezza del trullo.

Rivedere mio fratello mi fa bene. Ogni volta mi sento a casa. Che casa abbiamo mai avuto, noi due?

“Quando vieni a trovarci? Milena sarebbe contenta”. 

“Che carina che è. Sei felice?” lo interrompo. So che la felicità è una cosa con cui entrambi abbiamo dei problemi. 

"Tu, piuttosto, ti vedi sempre con quello?”. Faccio cenno di no con la testa, lui si rilassa, chiama il cameriere, ordina per tutti e due un caffè. 

“Qui lo fanno sempre come una volta, ci vengono i locali” gli dico sorridendo. Sole oltre l’ombreggiatura del platano, poca gente, qualche auto.

“Ricordi quella volta che ero andata con papà in barca?”.

“Certo che lo ricordo”.

“Non è che caddi solamente in acqua”.

“...quanti anni avevi? Eri molto piccola. Papà fece giusto in tempo ad afferrarti per i capelli”.

“Non sapevo nuotare. Ingoiai acqua. Ma quello che non raccontammo a casa fu che mi afferrò un polpo. Per le gambe. All’altezza del pube, sentii i tentacoli entrare nella vagina”.

“Davvero?”.


Quanto tempo mi ci vorrà? Potrei venirci a vivere, nel trullo. Chiederò un prestito e lo rimetterò a nuovo, scuciremo e cuciremo le pietre, interi strati di malta a unirle. Lo chiamerò Luz come luce, o anima. Che poi è lo stesso. I fichi d’india esplodono - un intrico di braccia corpose - formando una parete che separa la costruzione dal resto del mondo. Forse sfoltirò la siepe, quando sarò pronta.


                                                                                                                Tullia Bartolini

 

 

 

 

 

 

 

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