Il teatro di Sabbath, Philip Roth



Può, uno scrittore, raccontare la disperazione se non l'ha provata fin dentro la propria carne?
Ovviamente, no.
"Il teatro di Sabbath", di Philip Roth, è un disperante romanzo che ha per protagonista Sabbath, un burattinaio dal passato segnato da perdite che riempie con una sessuomania patologica. Drenka è la sua donna croata: lui adora le sue viscere, il suo seno, i suoi umori.

Che patina morale dare a una passione che unisce e crea ricordi, senza alcun infingimento, regola o pruderie religiose?
Qui, l'immoralità, è slancio eretico e vitale.

Recensire questo straordinario romanzo di Roth è (quasi) impossibile. Come definirlo? Febbrile, nevrotico, maniacale, pieno di domande sospese. Odioso, ributtante, meraviglioso.
Oscilla tra rimandi, episodi, ricordi. Si sposta, come un pendolo, tra le pulsioni della vita e della morte, tra il sesso e l'oblio. Ci sono pagine dominate dall'ossessione e dal non senso, parole che graffiano, oscenità. Sabbath è Sabbath ma è pure Roth. In fondo, è lo scrittore che imbastisce, al telefono, la lunga scopata verbale con la sua allieva.

Il resto, tolto lo slancio, la follia che tiene in vita, che ci impedisce di farla finita, è solo paura della morte.  In che altro modo si poteva raccontare il dolore di vivere?
E cosa spera di trovare Sabbath, nella scatola che sua madre ha conservato, che contiene i ricordi di Morty, il fratello perduto? Cosa, visto che non crede più a nulla e tutto gli appare per ciò che è, una vuota convenzione per adattarsi alla vita, in accomodamenti noiosi e stabilizzati?

Nessuno sa dircelo come Roth, il disperato, il sincero, lo spiazzante Roth, che sprofonda nelle parole e ne riemerge con un'ostinazione incredibile.
Non ha vinto il Nobel, no, ma non frega proprio a nessuno. Lui è stato il più grande.

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