Dal blog di Simona Vinci - intuttisensi.wordpress.com

Mi ha molto colpito questo post, pubblicato sul blog della scrittrice italiana Simona Vinci (In tutti i sensi). Mi ha fatto bene leggerlo, e non solo perché stimo questa autrice. Buona lettura.
"In questi giorni sto preparando una valigia per un soggiorno di una settimana lavorativa negli Stati Uniti: University of Wisconsin-Madison, incontri-lezioni con studenti americani di Letteratura Italiana, reading, eccetera. Non è che mi servano poi tante cose, io cerco sempre di viaggiare leggera, ma la valigia pesa lo stesso tantissimo. Più degli oggetti materiali (vari I-qualcosa presi in prestito per l’occasione, inseparabile macchina fotografica, e-reader, piastra per capelli, scarpe di ricambio, copie dei miei libri) pesano gli stati d’animo e i sentimenti: ansia, angoscia, paura e soprattutto una specie di fastidiosissimo, strisciante, senso di colpa. Ho un bambino di quasi undici mesi ed è la prima volta, da quando è nato, che dormirò in un posto che non è quello in cui dorme lui, la prima volta che sarò dall’altra parte del mondo, separata da un oceano e da un fuso orario di sette ore. Quando allo scoccare dei quarant’anni e dunque tre anni fa, decisi che, visto che non riuscivo a capire se desiderassi o meno avere un figlio, avrei lasciato fare alla natura, dentro di me cominciai una serie di ragionamenti ondivaghi riguardo il tipo di madre che avrei desiderato (o sarei riuscita ad) essere nel caso il bambino, o la bambina, si fossero manifestati. Nella vaghezza c’erano però alcuni punti fermi: stabilii che avrei con tutte le forze cercato di continuare a rimanere me stessa. Ovvero, che avrei accettato di buon grado i cambiamenti fisici e psicologici che la maternità comporta nella misura in cui, conoscendomi ormai da quarant’anni, sapevo di poterli tollerare. Ad esempio volevo continuare a nuotare: non ho mai smesso. A scrivere: idem. Ad avere il tempo per leggere: un po’ meno, ma ce l’ho fatta. Volevo riconoscermi ancora nel mio corpo e nel giro di qualche mese sono rientrata in tutti i vestiti di prima. Ho eliminato per nove mesi caffè e vino, ma non ho smesso del tutto di fumare perché sapevo che non ci sarei riuscita. E’ andato tutto bene. Certo, tanta tanta fortuna, ma anche un mix di disciplina e ascolto del mio corpo, del mio ‘cuore’, della mia testa e dei loro limiti, in un senso e nell’altro. Nel corso della gravidanza, gradualmente, sono arrivata a maturare la decisione che non avrei allattato al seno. In ospedale, subito dopo il parto, ho chiesto la pastiglia per bloccare la montata lattea sotto lo sguardo giudicante e non simpaticissimo delle ostetriche, ma ne ne sono fregata. Le tette erano le mie, non le loro. La vita, fuori di lì, sarebbe stata mia, del bambino e di suo padre, non la loro. Non mi sono pentita un solo istante. Per me, per come io sono fatta, è stata la scelta giusta. Ed è una scelta talmente intima e personale che nessuno deve permettersi di giudicarla o di discuterla. Questa decisione, tra l’altro, ha fatto sì che l’ accudimento del bambino, fin dal primo istante sia stato totalmente condiviso da me e dal padre. Un biberon è capace di offrirlo indifferentemente, con lo stesso amore, lo stesso sguardo adorante e lo stesso caldo contatto fisico, un uomo o una donna. Un papà o una mamma. Cosa cambierà questo, (se cambiera qualcosa) nello sviluppo psicologico della persona-bambino? Me lo sono chiesto, naturalmente, e anche qui non ho trovato una risposta giusta e definitiva che possa valere per tutti, ho trovato la MIA. Io sono contenta che mio figlio sia stato nutrito da suo padre fin dai primi istanti della sua vita. Sono contenta, primo, perché il mio recupero post-partum è stato molto lento e doloroso e probabilmente, se avessi dovuto allattare sarei sbroccata, ma sono contenta soprattutto perché quando vedo il mio bambino affidarsi sereno alle cure di suo padre, io mi sento più leggera, più libera e più vicina al tipo di mamma che ho desiderato e scelto (ovviamente in base a ciò che sono) di essere. Una donna molto diversa da quella che mia madre, in altri tempi, si è sentita in qualche modo costretta a essere, rinunciando forse a troppe cose, una su tutte: l’autonomia economica. Io sono stata una ragazza libera, ho potuto studiare, viaggiare, scegliere di seguire le mie passioni e di perseguirle certo anche grazie al sacrificio di mia madre, ma soprattutto grazie a un clima che vorrei tanto potesse continuare a esistere per le ragazze e per le donne più giovani di me e che invece, negli ultimi anni, ho avvertito cambiare e non in positivo. Come se spingere le donne di nuovo dentro l’uscio di casa e chiudercela a doppia mandata fosse la cosa giusta da fare (sarà mica perché tanto non c’è lavoro per nessuno e se qualcuno si deve sacrificare meglio che siano le donne?). Molto spesso mi pare di notare che sia tornata di gran moda la Sacra Mammità. Sui blog e nei forum maternità impazzano le Mamme Perfette che Sanno Tutto e io mi domando se la loro, oltre che una missione non sia una forma d’isteria. Una volta che nasce il bambino, molte donne scompaiono e di loro resta solo la Funzione-Mamma. Ma che bene può fare al suo bambino un genitore che sacrifica se stesso all’altare della nascita? Perché una mamma dev’essere o una perfetta Mammità o una Stronza senza cuore? Perché non si possono mescolare gli ingredienti e provare a essere, facendo del proprio meglio, ciò che si riesce ragionevolmente a essere? In queste ultime settimane, ogni volta che ho parlato con qualcuno del mio viaggio imminente, ho raccolto due reazioni nettamente distinte per sesso: gli uomini mi hanno rassicurata e spronata, le donne (tutte eccetto una, mia madre, sessantanove anni tra qualche giorno, e non a caso, secondo me) mi hanno fissata con compatimento sgranando gli occhi e dicendo cose del tipo: io non ce la farei mai, io non potrei proprio, io i miei figli non li ho mai lasciati e/o non li lascerei mai, neanche per un giorno. Da sempre, gli uomini sono abituati a lasciare i bambini alla cura delle donne e avventurarsi nel mondo per procacciare cibo e benessere alla loro famiglia. Generazioni di bambini- e io tra questi- sono cresciuti con una silhouette di padre più che un padre in carne e ossa, una figura che scompariva la mattina e rientrava la sera, vista quasi sempre e solo di sbieco, mentre si rade dietro la porta del bagno e poi infila un impermeabile – un camice, una tuta da lavoro, un berretto- e si chiude dietro la porta e poii la riapre. Oggi, qualcosa è cambiato, tutto sta cambiando ulteriormente diciamo, perché il lavoro non è una certezza ed è sempre più instabile e fluttuante. Forse, mi viene da sperare, dalla terribile crisi del lavoro potremmo imparare anche qualcosa di positivo, ad esempio a gestire ruoli e tempo diversamente da com’eravamo abituati a fare. Oggi può capitare che sia una donna quella che il lavoro ce l’ha e che sia il padre quello che sta a casa. Oppure può accadere, com’è nel mio caso, che entrambi si lavori da casa e in modo abbastanza elastico, dunque ci sono giorni in cui è più disponibile la mamma, altri in cui è più disponibile il papà, e si faccia di necessità virtù. Possiamo provare a trasformare anche la sfiga in opportunità. Chissà, forse un padre sarà meno ossessionato dalle pulizie approfondite della casa e dedicherà ai bambini un tempo più giocoso. Tornando a me e ai miei sensi di colpa, alimentati da tutte le testimonianze di quelle madri (giovani e anche giovanissime) che incontro e che mi dicono: ah, io mai lascerei il mio bambino… eccetera eccetera, ho fatto una domanda a me stessa. Una domanda lunghissima, articolata e potenzialmente infinita, una domanda la cui risposta si costruisce un giorno dopo l’altro senza mai diventare definitiva, ma che proverò a riassumere in poche parole, queste: chi vuoi essere per tuo figlio? La risposta è: me stessa. Io. Io che certo cambio insieme a te, bambino, un giorno dopo l’altro, ma che resto anche quella che ero a sette anni, a venticinque, a trenta, e cioè quella bambina, ragazza e donna che ha costruito la sua esistenza sul faticoso, poco rassicurante, ma anche gratificante e certo un po’ egocentrico desiderio, e poi tentativo, di essere uno scrittore, di essere un tramite per le storie degli altri, di viaggiare per andare a conoscere il mondo e raccontarlo, di attraversare le strade, i paesaggi e le persone, e di mantenersi, per quanto ciò sia mai possibile, un essere umano libero. Adesso non sono ancora capace di alleggerire la mia valigia da tutte quelle cose immateriali che la rendono un macigno, ma sento, a mano a mano che le accetto e le ripongo per bene dentro le tasche interne del trolley, che è mio preciso dovere nei tuoi confronti, Bambino, far fronte alle mie ansie, alle mie inquietudini e al mio senso di colpa. Voglio provare a regalarti, per il tuo futuro, invece che un sacco e una sporta di rimpianti e rinunce, questa madre inquieta. Una mamma che sa lavare i tuoi vestitini tutti giorni e preparati le pappe, ma che trova anche la leggerezza di farti mangiare un omogeneizzato in più, certa che non ti ammazzerà, e la forza di salire su un aereo e di staccarsi da terra, e da te, perché il suo lavoro, il suo mestiere e la sua passione comportano anche questo. Presto, la mia valigia sarà abbastanza capiente da contenere anche le tue cose e le strade, i paesaggi e le persone li potremo attraversare insieme, se vorrai. Non voglio darti la Madre Perfetta, voglio darti Tua madre. Ho la sfacciataggine e l’arroganza di credere che questa madre ti piacerà, e ho la sfacciataggine e l’arroganza di credere che a tutti i bambini del mondo piacerebbe di più la propria vera madre piuttosto che una finta Mammità Perfetta. C’è un viaggio lungo che tutti dobbiamo fare senza sentirci addosso il peso di modelli culturali che ormai sono frusti e traballanti. E’ una delle sfide più interessanti che abbiamo di fronte, come uomini e donne (eterosessuali e omosessuali) e come cittadini ed è quella, Primo, di imparare a pretende politiche sociali che tengano conto dei bisogni dei bambini, delle madri e dei padri e, Secondo, di accettare che la liquidità, l’elasticità e l’incertezza faranno in qualche modo parte del nostro futuro, ma invece che subirli e basta, potremmo provare a usarli per inventare nuovi modi di essere genitori e compagni di viaggio per tutti i bambini che verranno. Ps. Naturalmente, questo particolare viaggio e il Viaggio più grande di una famiglia che cerca di conservare uno spazio personale per ognuno dei suoi componenti io lo devo soprattutto a due persone: il mio compagno, e mia madre. Colgo l’occasione per fare a entrambi gli auguri di buon compleanno visto che il primo li compie domani e la seconda tra due giorni. Grazie Pietro, perché sei un papà speciale e un compagno collaborativo. Grazie mamma, perché mi hai sempre accompagnata verso me stessa".

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