Francesca Spada o della disillusione di partito

Sulla porta di casa sua figlia l’ha inseguita e le ha stretto le gambe all’altezza delle cosce. I bambini sentono sempre ciò che sta per accadere.

Ora sale verso i Camaldoli, lungo i tornanti trafficati. Lancia uno sguardo ai muretti a secco invasi dalle erbacce, alle scritte che inneggiano all’amore libero. La conosce: è la sua Napoli in disuso, stanca come una vecchia in pantofole. Francesca guarda ogni cosa senza disgusto,  come se non la riguardasse più. E’ bella ancora, la ruga tra le sopracciglia non appesantisce il suo sguardo, curioso come quello di un bambino. Fa caldo, nonostante l'estate sia ancora lontana. E’ un giorno di ricorrenze e giaculatorie nelle chiese. Sente le mani incollate al volante. Sudano come quelle di sua figlia quando gliele ha strette sulla porta di casa dicendole: Torna subito.
Un ragazzo in motorino le taglia la strada, tra le labbra gli penzola una sigaretta, frena bruscamente e  alza le mani in segno di scusa. Il rumore stridulo della frenata la riporta alla realtà, si riprende, si dice: ‘Va’ da loro, ti aspettano, cosa cazzo stai facendo’. Ma poi è proprio il pensiero di Renzo a darle il coraggio di proseguire. Ha intralciato fin troppo il suo cammino. Pigia forte il piede sull'acceleratore e svolta a destra, verso casa sua. E’ l’ultima volta che il suo sguardo si posa su quegli incroci, sulle piazzole di sosta, sulla tettoia del distributore di carburante, lesionata dal vento. Eppure sembrerebbe ancora tutto da fare: la vita, i progetti.

C’è un posto che è l’ultimo, nel territorio in cui si è deciso di vivere e lei lo sa bene. Come Renzo, che ha scelto il luogo definitivo della coerenza. Con Renato ne hanno discusso spesso, e sempre parlavano di determinare la propria vita a costo di ogni sofferenza. Discutevano pure di musica: era un modo come un altro per riconoscere – e accettare – la loro mancanza di uso del mondo. Renzo li guardava scuotendo il capo, ma erano stati momenti di intensa felicità. E pure Renato, dov’è andato a finire? In un buco senza fondo, nello spazio bianco, dentro l’infinito smarrimento della morte. Non credo in Dio, le diceva, credo nell’eternità e anche su questo loro due erano d’accordo. Perciò la scomparsa di Renato non era stata solo un evento inaspettato. Era stata, piuttosto, un segno, un messaggio, una rivelazione. Suonavano il piano seduti uno accanto all’altra, gli occhi chiusi, lei col capo inclinato verso di lui, assorto, le mani che sfioravano veloci i tasti. La politica, le domande pressanti sulla società, su dove stesse andando il Partito, ogni cosa si faceva lontana, in quei momenti. Al liceo Francesca studiava solo quello che le piaceva, ma scrivere l’appassionava e nonostante il suo carattere ribelle era molto amata dai professori. Le piaceva Euripide, la storia simbiotica tra Alcesti e Admeto. Quando un argomento catturava la sua attenzione non c’era niente da fare. Lo aveva tradotto in modo mirabile, il testo, tant’è che il professore s’era pure complimentato con i suoi genitori, aggiungendo qualcosa a proposito della sua incostanza.

Ma ora è sotto casa. 
Tira un lungo respiro, cerca freneticamente le chiavi sul fondo della borsa. E’ anche questo un ultimo gesto. Tutto potrebbe essere rimescolato, come carte sul tavolo da gioco. Perciò, forse, il pensiero dei volti amici l’afferra: come se i morti fossero ancora lì, a ricordarle la vita che è stata. In giardino ha reciso delle rose che tiene strette al petto, avvolte in un foulard. Sente le spine graffiarle la pelle.

Ecco che avanza senza guardarsi intorno. E’ bene abituarsi all’invisibilità. Sale le scale come se fosse un fantasma, per paura di incontrare qualcuno. Poi gira le chiavi nella toppa ed entra nell’appartamento in cui ristagna un odore di chiuso. Tutto, nel palazzo dagli intonaci scrostati, è silenzio. I suoi passi risuonano sul pavimento di marmo, spaventandola. Tergiversa, si dirige verso la camera da letto, d’un tratto ha paura di non farcela. Tira fuori dall’armadio la coperta fatta all’uncinetto, con le rose e le pagode cinesi. La stende sul materasso con cura, mentre le mani le tremano. Spruzza del profumo di colonia che ha trovato sul cassettone mangiato dai tarli. Il buon odore la consola, assieme a quello dei fiori, così struggente. Apre le rose con le mani, premendo sui petali finché non si staccano dalla corolla, poi li sparge sul letto con un’indolenza spaventata e muta, vi si sdraia sopra ancora con le scarpe ai piedi. ‘Così non va bene’, pensa. Ha messo in borsa una camicia da notte di seta, la tira fuori, a lungo ne accarezza la consistenza. Dopotutto, si tratta delle ultime cose da fare. Allora si spoglia, la pelle tremante, sentendo il freddo dell’appartamento chiuso da mesi. La pelle delle sue spalle è liscia, senza macchie. Francesca è bella. Si guarda nello specchio della toletta di fronte al letto e si vede. E’ stata sempre una donna desiderabile, di quelle che non restano attaccate alle cose. Non ce l’ha col Partito, Francesca. Non più. Hanno detto di lei che era una donna spuria. Tutti quei figli, la fatica per tenere assieme i fatti, le fughe da casa: queste non sono che piacciono agli uomini del P.C.I. Perciò Renzo meritava di più, più di una come lei, della sua impazienza. Gliel’hanno sempre fatto capire. 
Riprende coraggio, si sdraia sul letto. Accanto a sé ha la copia del libro di Rilke. Non lascia altro, a Renzo. Ma sa che lui capirà. 

E’ quasi fatta. Prende il flacone con mani tremanti, versa l’acqua nel bicchiere. Coordina i gesti con calma, lei che è sempre stata famosa per i suoi scatti d’ira. Due, tre, sette pillole. Hanno un sapore amarissimo. Inizia con uno stordimento, un giramento di testa, quella cosa. Adesso sa cos’è. Il cervello si sposta più in là del cranio, delle mani, del corpo. Bene. Dunque è così. Poi avverte un dolore lancinante allo stomaco, e sudori freddi lungo la schiena. I volti, certe frasi, s’accavallano dentro la sua mente. 
Se non fosse tanto doloroso. Stringe i pugni così forte da tagliarsi i palmi delle mani. Non durerà a lungo. Ma quanto tempo è già passato? Da quanto va avanti il contorcersi, questo digrignare i denti, lo spasmo osceno? Non lo vuole, il dolore che la lega ancora al corpo, a tratti. Il corpo non c’entra niente, non vuole star lì, e allora stende le gambe in un crampo che la taglia in due, prova a scendere dal letto, ma i piedi non riescono a toccare terra. Guarda la stanza con gli occhi chiusi,  in una smorfia che immagina orribile. “Torna presto”, le aveva detto, perentoria, sua figlia, sulla porta di casa. Nel momento in cui le appare quel piccolo volto, Francesca smette di pensarlo. E’ solo un attimo, l’ultimo respiro. --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 


(Francesca Nobili – che si firmava Spada – fu corrispondente per l’Unità e compagna di Renzo La Piccirella, medico napoletano, anch’egli editorialista dell’Unità e membro del PCI. Due anni dopo il suicidio di Renato Caccioppoli, matematico napoletano, Francesca si toglierà a vita, ingerendo una massiccia dose di barbiturici. Era convinta di aver danneggiato il marito all’interno del partito, ledendone l’immagine. Accanto a lei, sul letto, furono ritrovati dei versi di Rilke dedicati ad Alcesti, l’eroina del mondo greco che sacrifica la sua vita per salvare quella del marito Admeto). Al riguardo leggi: http://georgiamada.wordpress.com/2013/11/30/francesca-spada-di-edda-melon/ e l’articolo di Erri De Luca (Corriere della sera, 30 settembre 1995, http://archiviostorico.corriere.it/1995/settembre/30/eresia_Renato_Francesca_comunisti_soffocati_co_0_95093012009.shtml)

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