Philip Roth: "Mi sono arreso alla scrittura"



E’ stata messa in vendita, a New York, la casa di Philip Roth.

150 metri quadri di sobria eleganza, nessun orpello, una scrivania contigua al salotto, un leggio, un fax, la poltrona di pelle nera dove pare amasse sedersi a leggere. Dalla casa, dopo la sua morte, non è stata portato via nulla. Le sue ciabatte, i maglioni in perfetto ordine nell’armadio. I potenziali acquirenti passano in rassegna le stanze e tutte le sue cose, gli oggetti di uso quotidiano, lo spazzolino da denti.

Ho cercato in rete le immagini dell’appartamento (con vista, impagabile, su Manhattan), con la curiosità di chi vuol vedere chi fosse veramente Roth, scrittore che, come pochi, ha attirato sulla sua vita privata sempre molta curiosità. Nel suo “Perché scrivere?” (Einaudi Editore), uscito postumo (che contiene molte domande e riflessioni – ma nessuna risposta – sulla letteratura), non si comprende quale, secondo lui, debba essere il confine tra autobiografia e finzione. Se, cioè, una vita scialba abbia davvero bisogno di essere reinventata di sana pianta sulla pagina scritta (i genitori di Portnoy non furono i suoi, Roth lo ha sempre ribadito), o se, invece, sia impossibile non raccontare la storia “più vera che sia conosca”, ossia la propria.   

Chi è stato davvero Roth? Il nichilista misogino (che la sua ex moglie, Claire Bloom, ha demistificato nella propria autobiografia), o solo il grandissimo talento letterario a cui non è stato mai tributato il Nobel? Pare che le donne gli piacessero non poco. Lo hanno descritto incapace di relazioni durature (dopo diciotto anni di convivenza con la Bloom, decise di chiudere e di andare a vivere da solo), che fosse infedele, ossessionato dal sesso, affetto da dongiovannismo, malato di solitudine. Nel bellissimo “Perché scrivere?” viene fuori, tra le righe, l’immagine di un uomo essenzialmente tormentato dal demone della parola scritta, che triturava, ruminava, eliminava, seduto per ore dinanzi a un vecchio ‘Dell’ da cui si staccava solo per mangiare qualcosa, o per leggere. Un uomo che non trovava pace, attratto troppo dalle donne per non farne l’oggetto (vituperato alquanto) della propria arte e per non finire con l'odiarle (la sua prima moglie si fece sposare fingendosi incinta, dopo avergli mostrato il campione di urina di un’altra donna).

La scrittura fu per lui, probabilmente, come spesso accade, l’antidoto all’impossibilità di credere ancora a qualcosa e la riparazione all’errore, la sublimazione di una mania, che era quella dell’incapacità di vivere la vita in modo convenzionale e tranquillo.

Ma vado a tentoni. Roth non si è mai realmente svelato o forse si è svelato troppo, perché si possa davvero credere a tanta impudicizia e folgorante sincerità.

Nell’appartamento con vista sui grattacieli di New York ha trascinato i suoi ultimi passi, curvo nelle spalle come appare nelle interviste registrate qualche anno prima di morire, una lunga pappagorgia che lo imbruttiva non poco, le labbra serrate ma ancora, negli occhi, quel guizzo di dissacrante ironia. Aveva smesso di scrivere, pare uscisse più spesso di prima e che non gli importasse più nulla dei romanzi, dei suoi come di quelli degli altri.  Sul vecchio ‘Dell’, teneva attaccato un post-it: "La lotta con la scrittura è terminata".



Commenti

Post popolari in questo blog

Persone

Mia madre, di Doris Lessing

Da Malaga ad Almeria, coast to coast: cosa vedere in una settimana