Lettere


Ho ritrovato, a casa di mia madre, un pacco di vecche lettere indirizzate a me e mai spedite.
Sulla busta c'era scritto: "A mia figlia, parole vane".
Insomma, non ero e non sono stata la figlia che mia madre avrebbe voluto.
Mi è accaduto tardi di ribellarmi ai suoi desideri, anche se questa necessità si è palesata sempre, in me, esplodendo d'improvviso e facendo non poche vittime. 
Acqua passata, direbbe qualcuno. Eppure, il ritrovamento di queste lettere ha riaperto la ferita, mostrato la perenne necessità - che resta - di decifrare i segni per non farci distruggere. Le madri (e i padri) sono cicatrici, primi mondi che ci condizionano per sempre.
Riuscire a capire quale meccanismo ci ha incastrati fin dalla nascita non salva dalla caduta. Ma è la caduta che ci salva, è l'errore che ci traghetta verso la nostra vita più autentica. E anche dopo, nel rialzarci, resta questa zoppìa d'aver compreso e pure la fierezza di aver saputo scartare che, però, non consola.
La solitudine della consapevolezza si radica in noi come un vessillo, come un nuovo cuore.

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