Nadia Marino, tra genialità e ribellione


Non conosco personalmente Nadia Marino, ma ho letto alcune sue poesie che hanno toccato in me corde profonde.
Molta passione, molta vita, uno stile crudo e libero che scuote, il suo.
Nadia, giornalista, è nata a Napoli ed ha vissuto diversi anni a Caserta. Le ho rivolto alcune domande e sono stata travolta dalle sue risposte, nelle quali mi sono identificata completamente. Soprattutto quando ha parlato di donne, della 'ghettizzazione dei ruoli'. Penso anche io che molti uomini ci vogliano chiuse in stereotipi e che, se non ci sappiamo adattare -  nella vita come nell'arte - ci 'uccidano', anche solo metaforicamente.


Qual è la tua storia? Perché hai iniziato a scrivere?

Alla scuola elementare mia madre mi scriveva i primi temi, imbastendoli di fantasiose gite mai avvenute. Io ero inerme. Mi parevano fatui, falsi. Solo tanti anni dopo avrei capito il segreto della scrittura che può usare la finzione anche per dire il vero. Ho iniziato a scrivere il diario come usano fare tutte le adolescenti, ma non ero costante, forse proprio per avere una vita segreta, che mia madre non potesse leggere, dato che mi aveva soffocato il copyright, immagino. Mi serviva per studiare i miei cambiamenti. Poi a ridosso della morte per cancro di mia madre, sotto i diciotto anni, mi è capitato di scrivere dei versi di dolore, ma anche qui era solo una toccante riflessione. Non ho mai pensato seriamente di fare la poetessa, anche perché, come dice De Andrè, prima dei venti anni tutti scrivono, dopo i venti solo i poeti e i fessi ed io non osavo pensare di essere un poeta. Per questo motivo la mia pubblicazione dal titolo Galere (Guida edizioni) raccoglie brevi storie di strada più che poesie, raccolte per un ventennio e sfuggite alla furia distruttiva del fuoco di una stufa di ghisa, di autrice pentita. Infatti, alcuni lettori mi dicono che non sono omogenee. Certo, ne sono consapevole, perché sono da collocare in periodi molto diversi, lontani. Sono però arrivata a scrivere racconti brevi subito dopo, negli anni '80, ripromettendomi di non scrivere più “cose” che avessero una parvenza di poesia. Ne scrissi uno sullo stupro e fui premiata in un concorso di scrittura femminile - classificandomi tra le prime tre -, organizzato da 'Il paese delle donne', che era un giornale di femministe. Così mi decisi a pubblicare una raccolta di racconti che fu emendata da quelli più crudi, storie che parlavano di tossici, di gay, di ghetti di neri di Castel Volturno. Purtroppo ci sono ricaduta, nei versi, trattando d’amore e storie di migranti, di rom e di dolori, ma negli anni successivi mi sono adoperata, in tempi dilatati, a produrre qualcosa di più simile ai romanzi. La poca costanza non è solo pigrizia ma soprattutto difficoltà di editare i lavori: mentre come giornalista mi rincorrevano, come scrittrice accadeva il contrario. Vengo infatti da un’attività di giornalista su temi sociali, per cui la mia scrittura risente di queste influenze, anche se credo di avere scritture molto diverse nel giornalismo e nella letteratura. Le case editrici dicono che ho una scrittura parlata, ma è il mio stile. Non credo sia una mia mancanza, un’assenza di linguaggio colto, anche perché nelle poesie spesso sono molto densa. La mia è una scelta stilistica.




Chi sono stati i tuoi maestri?

I miei maestri sono stati gli scrittori che hanno lasciato traccia in me, talvolta senza che io me ne avvedessi. Chi legge le mie cose pensa al primo Peppe Lanzetta, ma io sono una donna e questo si sente; quindi potrei essere ( o vorrei essere?) una via di mezzo tra Rossana Campo, per la comicità femminile, e Paolo Nori, per lo stile assurdo, passando per la Dacia Maraini di 'Memorie di una ladra', ma giusto per dare un’idea.

Il tuo autore italiano preferito?

Questa è una domanda da un milione di dollari. Ne posso citare alcuni, oltre quelli già citati, ovviamente. Il primo Andrea De Carlo ha avuto un ruolo importante, anche se scriviamo in modo opposto; Ignazio Silone, Cesare Pavese, Erri De Luca, forse, ma con gli stranieri John Fante, Tahar Ben Jelloun, Isabel Allende, Banana Yoshimoto, Ingeborg Bachmann mi sono sentita a casa.

Progetti e prossime pubblicazioni.

Sto scrivendo un romanzo dal titolo 'Libertà e sortilegio' (il primo titolo era 'mavaria', in siciliano) che non so se riprenderò tra le mani, dato che ancora sto digerendo l’esito di un concorso letterario a cui ho partecipato per la casa editrice Neri Pozza, con un romanzo intitolato Amori Kamikaze, che ora, inedito, attende qualche casa editrice che lo scopra. Credo invece che 'Ritmo tribale' sia la mia opera più riuscita; la si può trovare sul sito Lulu. Ultimamente l'ho inviato anche alla Bompiani, che, con mio grande stupore mi ha risposto; ma non sono così pazza da credere che possa essere ripescato ed editato dalla Bompiani. La figura della protagonista nasce dalla mia infinita esperienza nell’ambito del sociale e in buona parte del contatto avuto con le comunità di rom presenti in Campania.

Dove sta andando il romanzo, in Italia?

Credo che si stia evolvendo e in futuro sarà qualcosa di misto. Forse una sorta di scrittura stilisticamente variegata, come un puzzle, che farà storcere il naso agli accademici. C’è talmente tanta carne a cuocere che vincerà chi riuscirà ancora a dare - non rimanendo ancorato ad un’idea di letteratura falsamente cristallizzata , in un continuo divenire di usi e costumi, di comunicazione mediatica e istantanea del web, emozioni e delle ricette che carpiscano l’attenzione, oramai fiacca, indifesa, bersagliata dei lettori. Le statistiche dicono che le donne battono gli uomini tra i lettori di romanzi.

Un bel primo piano di Nadia


Esiste una scrittura al 'femminile'?

Credo che esista e sono convinta che sia esistita, solo che in passato non è uscita fuori. Come in tutte le arti, le donne hanno dovuto scontare i ritardi della reclusione nei ruoli di sposi e madri. Se si pensa a Jane Austen, a Virginia Woolf, si comprende che per le femmine la fatica di mettere su carta l’elaborato, la riflessione, è sempre stato considerato un atto rivoluzionario, scomodo. Per questo motivo deve esistere una scrittura al femminile: perché delle donne devono parlare anche le stesse donne. Stanotte leggevo degli stralci del libro di Clarissa Pinkola Estes in cui si parla della favola di Barbablù come emblematica del rapporto che ha la donna ingenua col suo carnefice, marito-padrone, che la gestisce e l’ammazza quando si sente scoperto nel gioco di sottomissione. La donna è così tanto imbottita dagli stereotipi con cui è stata stigmatizzata da credere che la sua felicità possa trovarsi solo in quei ruoli di sposa e di madre, ma così facendo dimentica una parte di sé essenziale, senza la quale, come è accaduto alla nonna di una paziente di questa scrittrice psicanalista citata, si muore. Pinkola Estes racconta di questa donna che dopo anni di faticosa vita in fattoria col marito e tanti bambini, un bel giorno si veste elegantissima e si spara. Mi ha ricordato un poco la storia di cronaca nera di Elena Ceste, con la differenza che Ceste è stata uccisa quasi sicuramente dal marito. Però le dinamiche sono le stesse, quando le donne si riappropriano del loro tempo, sono ammazzate dal marito, se non riescono a farlo, si uccidono. La stessa cosa è accaduta in letteratura. Le donne hanno avuto sempre dei Barbablù che le opprimevano, come mariti, come editori, come scrittori invidiosi del loro talento, come censori, come detentori del potere che vuole essere rappresentato e rimanere nella sua comoda e privilegiata staticità.

La copertina dell'opera poetica di Nadia, 'Galere'

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