Processo al Sig.K.

Magistrato nelle corti internazionali ed esperto di diritto, Antonio Cassese era anche uno studioso del grande scrittore ceco. Ora i suoi appunti e diari diventano un libro. Eccone un estratto: “Imputato Kafka, lei è buono Io la assolvo dal senso di colpa”

Il Processo di Kafka è la storia, si sa, di un impiegato di banca che una mattina viene arrestato da due rappresentanti della legge, che non sanno dirgli di cosa è accusato né chi lo processerà. Egli rimane a piede libero per subire un processo davanti ad autorità sconosciute e irraggiungibili. Il libro descrive i suoi sforzi per capire di quali colpe è accusato e per difendersi in qualche modo, avvicinando diverse persone variamente legate alla legge. Alla fine, senza essere mai trascinato in giudizio davanti ad un tribunale, viene prelevato a casa sua da altri due rappresentanti della legge, portato in una cava abbandonata e triste e ucciso con «un lungo coltello da macellaio affilato da tutte e due le parti». Tutto il romanzo è costruito come un insieme di incubi, in cui l’impiegato di banca, oppresso da un angoscioso sentimento di colpa, si trova di fronte ad una serie infinita di autorità nascoste e impenetrabili, che agiscono per motivi imprecisabili e con modalità arcane. Il nodo o conflitto essenziale di cui parlavo prima è dunque stemperato e reso metafisico in un susseguirsi di vicende in cui lo scontro tra l’individuo e l’autorità è diventato esistenziale e nel contempo polivalente, ambiguo ed universale. [...] Ma la problematica più specifica la ritroviamo almeno in tre momenti diversi del romanzo. Il primo è all’inizio, quando i due guardiani della legge vengono ad arrestare K. e lui non resiste. In quel momento K. si chiede nondimeno se respingere con forza, uscendo dall’appartamento, quel tentativo con tutta probabilità illegale di dichiararlo in stato di arresto: «Forse in tutto l’affare sarebbe stata questa la soluzione più semplice, di spingere cioè le cose agli estremi». K. ritorna sul punto parlando con la signora Grubach: se avesse subito tagliato corto e fosse subito uscito dalla sua camera da letto senza farsi sbarrare la strada dai due uomini della legge, forse avrebbe troncato sul nascere quel sopruso: «Insomma, se avessi agito ragionevolmente, non sarebbe successo nulla e ogni cosa sarebbe stata soffocata». Ecco qui il motivo della possibile ribellione alla prepotenza e all’arbitrio, ribellione che in teoria avrebbe potuto costituire un modo radicale di troncare il problema, ma che non ha potuto realizzarsi per l’incapacità di K. (il quale, per giustificare la sua inettitudine alla rivolta si affretta a dire alla signora Grubach: «Ma si è così poco preparati»). Il motivo della rivolta ritorna nell’episodio dell’incontro con il giudice istruttore nella sala delle assemblee, quando K. urla: «Sono giunto alla fine», batte il pugno sul tavolo e fa una lunga arringa contro il tribunale, al termine della quale, prima di aprire la porta e uscire, esclama rivolto agli uomini della legge: «Straccioni, faccio a meno di tutti i vostri interrogatori». Sorprende questa risolutezza e questa forza di opporsi agli architetti ed esecutori dell’arbitrio. Ma il seguito del romanzo mostra bene che si trattava solo di conati di ribellione, perché poi K. riprende i suoi tentativi di comprendere perché lo vogliono processare e di fatto si sottopone all’autorità imperscrutabile della legge. Tanto è vero che più tardi sarà il custode del tribunale a dirgli, «con uno sguardo pieno di fiducia» (mit einem zutraulichen Blick) ma, forse, in realtà con scherno: «Si ha sempre voglia di ribellarsi» (Man rebellierteben immer). Lo stesso motivo torna ancora nel capitolo 5, quando K. trova i due guardiani della legge nello sgabuzzino della banca, mentre vengono frustati da un terzo perché K. si era lamentato di loro con il giudice istruttore. K. cerca di sottrarli al frustatore tirando fuori il portafoglio ed offrendogli una buona mancia se li lasciava liberi. Ma fa tutto ciò con imbarazzo: mentre offriva la mancia «non guardava in viso il frustatore» e gli dice, con aria losca: «È sempre meglio per tutti combinare affari di questo genere ad occhi bassi». Ma il frustatore rifiuta, temendo di essere denunziato anche lui al giudice istruttore. Al che K. replica che non voleva affatto che i due fossero puniti, altrimenti non starebbe ora a chiedere di lasciarli liberi; se avesse saputo che sarebbero stati puniti non avrebbe fatto i loro nomi al giudice istruttore, perché essi non sono colpevoli — «colpevole è l’organizzazione, colpevoli sono gli alti impiegati». Ma il frustatore non cede e continua a colpire i due. Dopo di che K. lascia il ripostiglio e si allontana, abbandonando i due alla loro sorte. Ma resta inquieto: «Lo tormentava il fatto di non essere riuscito ad impedire quelle frustate; ma se non era riuscito non era colpa sua». E a questo punto prospetta a se stesso tutta una serie di sofismi per giustificare la propria codardia e spostare la colpa sugli altri. In questo episodio K. cerca dunque di aiutare gli altri, ma non ci riesce, e conclude accettando lasconfitta ed anche autogiustificandosi con la riflessione che non era colpa sua — mentre in realtà sa benissimo, e lo ha ammesso prima, che se quei due sono picchiati è perché lui aveva fatto i loro nomi al giudice istruttore. K. è colpevole delle sofferenze degli altri, ma non ha né la forza né il coraggio di arrestare la mano del persecutore; cerca solo di corromperlo con modi loschi, di cui si vergogna; non ci riesce e finisce per fuggire, autoconvincendosi che non è in realtà colpevole. In questo episodio c’è dunque l’accettazione dolorosa sia della colpa sia della propria incapacità di reagire all’arbitrio se non con modi meschini e inefficaci. Tutta la vicenda del frustatore e dell’incontro nello sgabuzzino esprime e simboleggia la definitiva, totale e irrimediabile sconfitta di K.[...] Sembrerebbero dunque chiare le radici più nascoste del desiderio di Kafka di aiutare gli altri ed in particolare di aiutarli ad opporsi all’oppressione. Quel che ora vorrei notare è che questo desiderio non si manifesta solo nella narrativa enel sogno, ma anche nella vita quotidiana dello scrittore. E si manifesta soprattutto in due modi, che spesso si intrecciano. Anzitutto nella scelta del lavoro. Kafka, dopo essersi addottorato in giurisprudenza, entra nel 1907, a 24 anni, alle Assicurazioni Generali. Ma è un lavoro monotono e burocratico, per cui sente che diventerà «a poco a poco di legno», come scriverà in una lettera ad un amico. Dopo nove mesi lascia dunque quel lavoro ed entra all’Istituto di assicurazioni contro gli infortuni dei lavoratori del Regno di Boemia, dove lavorerà dal 1908 al 1922, quando va in pensione anticipata, per ragioni di salute. Questa scelta dello scrittore non è stata mai studiata a fondo. Credo che essa non fosse solo dettata dalla necessità di trovare un gagnepain, ma sia in larga misura legata a motivazioni intime. All’Istituto egli infatti lavorava soprattutto nel campo degli indennizzi per gli infortuni degli operai e della propaganda per la prevenzione degli infortuni. Di fatto Kafka si occupò in numerosi casi di operai feriti o mutilati da macchine di lavoro. È evidente che in questo lavoro egli riusciva ad appagare il suo desiderio di proteggere i deboli, di soccorrere i più sfortunati. [...] L’altro modo per soddisfare il desiderio di aiutare gli altri era quello, minuto e sporadico, di fornire un piccolo ristoro, attraverso un po’ di denaro, a coloro che si trovavano in ristrettezze. Benché avesse un rapporto complesso con il denaro, secondo quanto ci riferiscono lo stesso scrittore (Lettera al padre) e Milena, già da piccolo Kafka sentì il bisogno vivissimo di dare un po’ del suo denaro ai più sfortunati. A quanto pare, lo scrittore era generoso anche con i suoi colleghi. Secondo una testimonianza raccolta da Wagenbach, un dattilografo dell’Istituto di assicurazioni cui egli dettava le minute, trovandosi in difficoltà finanziarie, otteneva spesso piccoli prestiti dallo scrittore, il quale poi ne rifiutava sempre la restituzione, osservando: «Lei ha bisogno di aiuto, ed io sono in grado di darglielo». Probabilmente anche nei suoi rapporti con i mendicanti o i colleghi in difficoltà finanziarie, Kafka era mosso dal consueto sentimento complicato e contraddittorio. Vedeva in essi se stesso. Li vedeva bisognevoli di aiuto e incapaci di ribellarsi alla loro condizione o comunque di sovvertirla. Mutato nomine, de te fabula narratur: la loro pena era anche la sua, e la molla profonda del suo aiuto era il sentimento disperato di essere come schiacciato e di non trovare una via d’uscita. [...] Questa motivazione spiega forse anche i limiti dell’«aiutare gli altri » che possiamo riscontrare in Kafka. Egli era incapace di contribuire a mutare in modo radicale la condizione dei più sfortunati, che pure tanto lo turbavano. In un’epoca di grandi sovvertimenti sociali, di ideologie rivoluzionarie che predicavano il «riscatto degli oppressi», egli non partecipò a movimenti politici, ad associazioni sindacali o ad organizzazioni volte a migliorare le condizioni di vita di tanti “diseredati”. Forse contribuirono a questo atteggiamento la sua indole schiva, il bisogno di rimanere in ombra. Forse anche una concezione della letteratura che separa la scrittura dal così detto “impegno sociale”. Ma probabilmente fu decisivo il sentimento radicato che, così come non c’è salvezza per il singolo (l’uomo Kafka hic et nunc), non ci possa essere salvezza per la moltitudine. © RIPRODUZIONE RISERVATA
In 'Kafka è stato con me tutta la vita' (Il Mulino, pagg. 144, euro 14) gli studi di Antonio Cassese (1937-2011) su Franz Kafka

Commenti

  1. Condiviso dal blog di Pierluigi Caravella.(https://plus.google.com/100919986830193283750)

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  2. Risposte
    1. ... non si tratta di essere maldestri, quanto piuttosto di acquisire un minino di familiarità con la gestione del Web Log. Tra l'altro, da tempo Blogger ha innovato il tutto e le foto, una volta caricate, possono essere spostate, allargate o rimpicciolite in un modo che dire semplice è troppo poco.

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  3. In effetti ,il risultato sarebbe molto diverso.

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