Dolcezze

Si scosse, ancora stordito dall'orgasmo, per rispondere a una telefonata.
Si sciolse dall'abbraccio di lei, annaspò nel buio alla ricerca del cellulare.  Il display lampeggiò a lungo, un pallido riflesso sulla testiera del letto.
Quello era l’unico albergo subito dopo l’uscita dalla tangenziale, il più vicino all’ufficio.
Era sua moglie. Le disse Sono occupato. Poi aggiunse: Abbi solo un po’ di pazienza, tra un'ora sarò a casa.

La luce penetrava tra le persiane, lei vedeva il profilo del suo petto. Vi passò sopra le dita, lentamente. Per vincere l'imbarazzo, scivolando fuori dall’abbraccio e dal groviglio delle lenzuola, lui controllò che la chiamata fosse terminata e poi disse: - Mi ha chiesto dove fossi.
Lo specchio dinanzi al letto rimandava le loro immagini deformate dalla penombra. Una gamba, un braccio; il nero dei capelli di lei che macchiava il cuscino.
S’era vista riflessa, per un attimo, mentre facevano l’amore. La schiena di lui, curva e magra come quella di un vecchio. Le era sembrato distante da quel luogo, immerso in un mondo che lo consolava e che non ammetteva vere presenze. Avrebbe dovuto cercare una colpa ma, d’un tratto, capì di essere stanca. Abbi solo un po’ di pazienza, tra un'ora sarò a casa lui aveva detto. La dolcezza della sua voce l’aveva ferita. Come se quell’uomo – che era ancora un bell’uomo, un amatore di donne  - le fosse apparso ancora una volta per ciò che era: un organizzatore di istanti, un separatore di momenti.

Saliva dalle lenzuola l'odore dei loro corpi; smise di guardarlo e fissò a lungo il parato giallastro; gialla la poltrona di velluto, d’un colore triste la testiera del letto. La stanza, così anonima, viveva di altre vite: di gemiti, sonno, risate confuse nella notte. Non era abitata dalla loro storia, e neppure dalle loro voci. Dalla strada sentì salire una canzone francese degli anni ‘30 che non riconobbe.
Lo immaginò nell’istante successivo e le sembrò allora di vedere, come in un sogno, l’uscita A8 della tangenziale; la strada, quella che percorrevano separati, dipanarsi lungo curve strette, mentre l’auto correva; il cavalcavia, gli alberi e gli ultimi passanti frettolosi in fuga dalla notte. E poi si vide andare verso le luci calde della città; le finestre, le tende, nell'ambra bruciata delle lampade. In breve fu nel tepore di una casa ordinata, quella di lui, nel fondo dei cassetti, tra i minuscoli oggetti che lui certamente conservava, con la follia del separatore di eventi. Si rannicchiò in quel calore, in quella vuota oscurità. Lui invece, dopo un po’, ancora soddisfatto, perduto nel ricordo del piacere, avrebbe pensato a lei. E una perfida dolcezza lo avrebbe invaso.

Si vide allora nell’inganno, nell’idea di un tempo non suo, che lui scomponeva a suo piacimento, come un prestigiatore, un funambolo: sospeso tra realtà e irrealtà. E lei, forse, non era né dall’una, né dall’altra parte: semplicemente, non esisteva.  Allora si immaginò percorrere la medesima strada dalle curve strette, superare il casello che l’avrebbe definitivamente separata da quell'uomo, ancora contenta nel saluto dal finestrino, ancora per poco.
Si guardò andare oltre gli alberi e i passanti; verso casa, superata la chiesa e la pompa di benzina, il bar e l’edicola dove comprava il giornale tutte le mattine. E poi risentì il peso con cui si trascinava al risveglio, dentro a una mancanza e a un silenzio. Andando al lavoro, i passi misurati, il cappotto sulle spalle; e poi, di colpo, ecco la nebbia che evaporava dai palazzi, indifferente alla sua solitudine.


Lui le chiese, a un tratto, cosa avesse. Nella sua mente voci e volti s’accavallavano: il suo amore per le donne prendeva forma nel viso allegro di lei, nella forma generosa del suo seno. Così amava pensarla: come un sunto, un’icona, un riassunto degli amori della sua vita. Invecchiava, era forse per quello.


La sua voce le giunse da una grande distanza, fece uno sforzo per rispondergli. L’aveva condotta in un altro luogo senza saperlo; costretta ad andar via, a non esserci più. Lui fissò il soffitto grattandosi una gamba, poi accese una sigaretta, gliela offrì per un tiro. Le disse che era splendido stare con lei, ma non avrebbe saputo dire se davvero fosse così; quella donna rappresentava una quadratura e una salvezza, in fondo. O un’abitudine come le altre. Lei disse Tutto bene, poi s’alzò. L’uomo rimase a guardare quel corpo giovane, che il tempo ancora non lambiva.
Invidiava la straordinaria giovinezza della sua amante. Gli mancava in se stesso come un’omissione, una promessa tradita. Aveva ingannato i suoi anni come tutti e ora li vedeva dichiarati in lei: forse anche per questo non si decideva a lasciarla.

Si salutarono davanti all’hotel: le diede un bacio leggero sulla fronte e lei non si sottrasse. Anzi, si nascose in quell’abbraccio per l'ultima volta.
Le sembrò di non sentire il suo corpo. E anche quello era un segno. Quando arrivò a casa andò a sedersi sul divano. Non accese l’interruttore. Faceva freddo e, tra le imposte, passava la luce solitaria della sera. Dalla cucina sentiva lo sgocciolìo del rubinetto. Era il respiro della casa, che viveva all’insaputa di lei. Sorrise, nel buio, tolse le scarpe, le calze, i pantaloni. Le sue gambe avevano la consistenza delle cose e degli oggetti. Sapeva che, tra un po’, il silenzio sarebbe stato interrotto dallo squillo del telefono. Quella storia andava così.

Chiuse gli occhi. Non riusciva a immaginare né viaggi, né distanze, né vendette. Era un buon segno.
Quando il cellulare iniziò a vibrare non si mosse. Era certamente lui, ma non si diede la pena di verificare; era sceso a buttare la spazzatura. A quell'ora c'era sempre un pensiero per lei, tra l'immondizia e i gatti in amore.
Ora guardava fuori dalla finestra. Sarebbe arrivata l'alba, col suo chiarore azzurrognolo. L'odore della panetteria ed i suoni delle radio. Le venne in mente il titolo di quella canzone: Vous, qui passez sans me voir.
Ma non le importava più.

Tullia Bartolini

Commenti

  1. Quanto squallore in quella camera d'albergo...


    PS. è UN pezzo del tuo romanzo?

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